Abbiamo scelto il Castello di Castel del Rio come sede per queste mostre fotografiche non solo per il suo fascino storico, ma anche per il suo profondo significato simbolico. Gli eventi che accadono in pianura sono spesso sotto gli occhi di tutti, ma le vicende silenziose della montagna, in particolare quelle dell'Appennino romagnolo, sfuggono all'attenzione della maggior parte delle persone. La recente devastazione causata dal maltempo ha messo in luce la fragilità degli ecosistemi locali, come i castagneti secolari di Castel del Rio, minacciati da frane e piogge torrenziali. In questo contesto, il castello diventa il luogo ideale per ospitare riflessioni profonde sui temi ambientali e sociali trattati nelle mostre.
(DIS)INTEGRARE PROSPETTIVE
Progetto di Tomás Cajueiro, PhD (@tomas.cajueiro)
(DIS)INTEGRARE PROSPETTIVE di Tom affronta le molteplici crisi del XXI secolo, concentrandosi sugli effetti devastanti del cambiamento climatico e sul colonialismo epistemologico che ha modellato e limitato la nostra comprensione del mondo. La mostra utilizza immagini dei collettivi fotografici FARPA (Brasile), FOTOMOVIMIENTO (Spagna) e OLLO PHOTO (Spagna) per stimolare una riflessione profonda non solo sulla crisi climatica, ma anche su chi produce la conoscenza e come essa viene trasmessa.
FARPA presenta il reportage Messico: gruppi di autodifesa, 2021, che documenta la resistenza dei gruppi di autodifesa messicani contro la devastazione dei loro territori. Questi gruppi, formati in risposta all'abbandono da parte dello stato e alla violenza dei cartelli della droga, difendono non solo le loro vite, ma anche le loro terre e culture ancestrali, minacciate dall'insaziabile appetito del capitalismo moderno.
FOTOMOVIMIENTO esplora il tema dell'accoglienza dei migranti in Europa, concentrandosi su come coloro che provengono da ex colonie europee affrontano la crisi climatica e le sue conseguenze. Le immagini rivelano la vulnerabilità e la resilienza dei migranti, evidenziando come le logiche coloniali continuino a influenzare le politiche di accoglienza e marginalizzazione in Europa.
OLLO PHOTO, evidenzia come la crisi climatica intensifichi i sintomi di territori già malati, rendendoli sempre più inospitali. Le conseguenze di questa crisi complicano la sopravvivenza dei popoli, portando a migrazioni forzate e all’aridità delle terre, dove risorse vitali come acqua e cibo scarseggiano. In queste condizioni estreme, molti sono costretti a cercare rifugio in luoghi meno colpiti, per continuare a vivere.
(DIS)INTEGRARE PROSPETTIVE espande la comprensione della crisi climatica e delle strutture di potere che ne determinano gli effetti, proponendo un dibattito su un futuro più inclusivo e sostenibile, fondato sul riconoscimento e l'integrazione di saperi diversi, in particolare quelli delle comunità indigene e tradizionali.
RADICI NEGATE
di Laura Frasca
Neglected Roots di Laura Frasca è un potente racconto visivo sulla rapida scomparsa della foresta del Borneo, un fenomeno che minaccia le "radici" vitali del nostro pianeta. La mostra documenta le devastanti conseguenze della deforestazione, come l'estinzione di specie endemiche, tra cui i grandi primati come gli oranghi, e l'impatto negativo sull'intero ecosistema.
Oltre a denunciare la perdita di biodiversità, Neglected Roots si concentra sulla lotta e coinvolgimento dei Dayak, storici guardiani della foresta, contro le pressioni globali e le multinazionali che spingono verso la distruzione del loro ambiente. La mostra mira anche a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di proteggere il Tanjung Puting National Park, un'area protetta fondata dalla primatologa Birutè Galdikas, che lavora per salvaguardare gli oranghi dall'estinzione. Laura Frasca invita i visitatori a riflettere sull'importanza di preservare le nostre radici naturali e a prendere coscienza delle gravi conseguenze della deforestazione.
Queste mostre, offrono una riflessione potente e urgente sulle sfide ambientali e sociali del nostro tempo. Invitiamo i visitatori a immergersi in queste narrazioni visive, a riflettere sul proprio ruolo nella protezione dell'ambiente e a considerare nuove prospettive per affrontare le crisi globali. Il castello, con il suo legame storico e naturale con il territorio, non è solo una cornice, ma un simbolo di resistenza e rinascita, ideale per accogliere questo dialogo essenziale.
Laura Frasca, curatrice delle mostre
Progetto di Tomás Cajueiro, PhD (@tomas.cajueiro)
(DIS)INTEGRARE PROSPETTIVE di Tom affronta le molteplici crisi del XXI secolo, concentrandosi sugli effetti devastanti del cambiamento climatico e sul colonialismo epistemologico che ha modellato e limitato la nostra comprensione del mondo. La mostra utilizza immagini dei collettivi fotografici FARPA (Brasile), FOTOMOVIMIENTO (Spagna) e OLLO PHOTO (Spagna) per stimolare una riflessione profonda non solo sulla crisi climatica, ma anche su chi produce la conoscenza e come essa viene trasmessa.
FARPA presenta il reportage Messico: gruppi di autodifesa, 2021, che documenta la resistenza dei gruppi di autodifesa messicani contro la devastazione dei loro territori. Questi gruppi, formati in risposta all'abbandono da parte dello stato e alla violenza dei cartelli della droga, difendono non solo le loro vite, ma anche le loro terre e culture ancestrali, minacciate dall'insaziabile appetito del capitalismo moderno.
FOTOMOVIMIENTO esplora il tema dell'accoglienza dei migranti in Europa, concentrandosi su come coloro che provengono da ex colonie europee affrontano la crisi climatica e le sue conseguenze. Le immagini rivelano la vulnerabilità e la resilienza dei migranti, evidenziando come le logiche coloniali continuino a influenzare le politiche di accoglienza e marginalizzazione in Europa.
OLLO PHOTO, evidenzia come la crisi climatica intensifichi i sintomi di territori già malati, rendendoli sempre più inospitali. Le conseguenze di questa crisi complicano la sopravvivenza dei popoli, portando a migrazioni forzate e all’aridità delle terre, dove risorse vitali come acqua e cibo scarseggiano. In queste condizioni estreme, molti sono costretti a cercare rifugio in luoghi meno colpiti, per continuare a vivere.
(DIS)INTEGRARE PROSPETTIVE espande la comprensione della crisi climatica e delle strutture di potere che ne determinano gli effetti, proponendo un dibattito su un futuro più inclusivo e sostenibile, fondato sul riconoscimento e l'integrazione di saperi diversi, in particolare quelli delle comunità indigene e tradizionali.
RADICI NEGATE
di Laura Frasca
Neglected Roots di Laura Frasca è un potente racconto visivo sulla rapida scomparsa della foresta del Borneo, un fenomeno che minaccia le "radici" vitali del nostro pianeta. La mostra documenta le devastanti conseguenze della deforestazione, come l'estinzione di specie endemiche, tra cui i grandi primati come gli oranghi, e l'impatto negativo sull'intero ecosistema.
Oltre a denunciare la perdita di biodiversità, Neglected Roots si concentra sulla lotta e coinvolgimento dei Dayak, storici guardiani della foresta, contro le pressioni globali e le multinazionali che spingono verso la distruzione del loro ambiente. La mostra mira anche a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di proteggere il Tanjung Puting National Park, un'area protetta fondata dalla primatologa Birutè Galdikas, che lavora per salvaguardare gli oranghi dall'estinzione. Laura Frasca invita i visitatori a riflettere sull'importanza di preservare le nostre radici naturali e a prendere coscienza delle gravi conseguenze della deforestazione.
Queste mostre, offrono una riflessione potente e urgente sulle sfide ambientali e sociali del nostro tempo. Invitiamo i visitatori a immergersi in queste narrazioni visive, a riflettere sul proprio ruolo nella protezione dell'ambiente e a considerare nuove prospettive per affrontare le crisi globali. Il castello, con il suo legame storico e naturale con il territorio, non è solo una cornice, ma un simbolo di resistenza e rinascita, ideale per accogliere questo dialogo essenziale.
Laura Frasca, curatrice delle mostre
(DIS)INTEGRARE PROSPETTIVE
Progetto e Testi di Tomás Cajueiro, PhD (@tomas.cajueiro)
Gli effetti dell’impatto del cambiamento climatico, anche se non completamente compresi, sono ormai una realtà nel XXI secolo. Siccità, alluvioni, carestie, genocidi, guerre e molto altro sono le conseguenze dell'errato utilizzo delle risorse naturali. Manifestazioni di una mentalità antropocentrica, dell'illusione occidentale che la ragione umana sia in grado di sottomettere la natura ai suoi bisogni, ora ci conducono ad un drammatico epilogo.
Come affrontare queste crisi? Dove trovare soluzioni sostenibili per mitigare i potenti effetti che colpiscono tutti, soprattutto coloro che storicamente non sono stati responsabili della massiccia produzione di materiali inquinanti? "(Dis)integrare prospettive" che utilizza immagini di tre collettivi fotografici, Farpa (Brasile), Fotomovimiento (Spagna), Ollo (Spagna) per stimolare una riflessione non solo sulla crisi climatica, ma soprattutto sul colonialismo epistemologico e sui suoi effetti limitanti sulla nostra comprensione di cosa sia il conoscimento e quali sono i soggetti che lo producono.
Immersi in un flusso di notizie che dipinge una situazione apparentemente insolubile, ciò che persiste è l'ansia e il dubbio sulle possibili strade da percorrere. Capitalismo verde? Nuove fonti energetiche? Consumo locale? Molte sono le carte messe in tavola. Tuttavia, fino a che punto un cambiamento superficiale nel sistema rappresenterebbe la soluzione per problemi creati dal sistema stesso?
Una crisi epocale, come quella climatica, potrebbe anche rivelarsi un'opportunità per mettere in luce gli ultimi effetti de colonialismo europeo: il colonialismo epistemologico e l’idea che soltanto la sapienza europea è capace di proporre le soluzione; che il modo europeo di produrre conoscenza sia l'unico valido, mentre il resto viene relegato a tradizioni e saperi popolari. In una crisi come quella climatica, le conoscenze indigene e "tradizionali" rappresentano una fonte inesauribile di soluzioni.
La mostra "(Dis)integrare prospettive" propone quindi un dibattito sulla necessità di espandere il nostro sguardo al di là della scienza climatica europea. Un dibattito su cos’è la conoscenza e chi sono i soggetti che la producono affinché possiamo pensare un nuovo futuro. Un futuro, come propone il grande Ailton Krenak, ancestrale.
FARPA
Sito: www.agenciafarpa.com
Instagram: @farpa
Fotografi: Erick Dau (@erickdau), Francisco Proner (@franciscoproner) e Thiago Dezan (@thiagodezan).
MESSICO: GRUPPI DI AUTODIFESA - 2021
Il reportage "Messico: gruppi di autodifesa" si concentra sui gruppi di autodifesa messicani, un fenomeno sociale in crescita che rappresenta una forma di resistenza contro la distruzione e la devastazione dei loro territori. Questa resistenza autoctona è una risposta a un modello di sviluppo imposto dallo stato e dai cartelli della droga, che minacciano di annientare i loro stili di vita e saperi ancestrali.
Nei contesti più poveri dell'America Latina, le scomparse, i massacri, il lavoro forzato e i furti causati dall'insicurezza monetaria e dal traffico di droga mettono in grave pericolo le popolazioni, costringendole a lasciare le loro case e abbandonare tutto ciò che possiedono. In risposta all'abbandono dello stato e nel disperato tentativo di rompere il ciclo di violenza, le comunità tradizionali si organizzano in forze di autodifesa antagoniste alle autorità governative e ai cartelli della droga. Fondandosi sulla legge consuetudinaria della costituzione messicana, che garantisce una certa forma di autodeterminazione per i popoli indigeni, i civili adottano metodi che evocano i conflitti latino-americani del secolo scorso per proteggere i loro territori e preservare la loro esistenza. In tal modo, salvaguardano anche i loro ambienti naturali, minacciati dall’insaziabile appetito del capitalismo moderno.
I membri della polizia comunitaria indigena lavorano giorno e notte, pattugliando i dintorni delle fattorie e i sentieri frequentemente utilizzati dai trafficanti. In alcune località, la maggior parte degli uomini partecipa a queste forze di polizia e i bambini vengono educati all'uso delle armi per l'autodifesa.
Il reportage evidenzia come la contesa per il controllo dei territori vulnerabili nei paesi latino-americani non sia solo una lotta per la sicurezza, ma anche una battaglia per la preservazione. La resistenza a questi attacchi non è sempre pacifica e spesso si traduce in autodifesa armata. Attualmente, si stima che ci siano almeno 50 gruppi di autodifesa in Messico, molti dei quali non ancora riconosciuti dal governo federale. Questi gruppi non solo difendono i loro territori dalla devastazione, ma fungono anche da custodi della loro cultura e identità, preservando così un'importante parte del patrimonio collettivo di fronte alla minaccia di distruzione.
Progetto e Testi di Tomás Cajueiro, PhD (@tomas.cajueiro)
Gli effetti dell’impatto del cambiamento climatico, anche se non completamente compresi, sono ormai una realtà nel XXI secolo. Siccità, alluvioni, carestie, genocidi, guerre e molto altro sono le conseguenze dell'errato utilizzo delle risorse naturali. Manifestazioni di una mentalità antropocentrica, dell'illusione occidentale che la ragione umana sia in grado di sottomettere la natura ai suoi bisogni, ora ci conducono ad un drammatico epilogo.
Come affrontare queste crisi? Dove trovare soluzioni sostenibili per mitigare i potenti effetti che colpiscono tutti, soprattutto coloro che storicamente non sono stati responsabili della massiccia produzione di materiali inquinanti? "(Dis)integrare prospettive" che utilizza immagini di tre collettivi fotografici, Farpa (Brasile), Fotomovimiento (Spagna), Ollo (Spagna) per stimolare una riflessione non solo sulla crisi climatica, ma soprattutto sul colonialismo epistemologico e sui suoi effetti limitanti sulla nostra comprensione di cosa sia il conoscimento e quali sono i soggetti che lo producono.
Immersi in un flusso di notizie che dipinge una situazione apparentemente insolubile, ciò che persiste è l'ansia e il dubbio sulle possibili strade da percorrere. Capitalismo verde? Nuove fonti energetiche? Consumo locale? Molte sono le carte messe in tavola. Tuttavia, fino a che punto un cambiamento superficiale nel sistema rappresenterebbe la soluzione per problemi creati dal sistema stesso?
Una crisi epocale, come quella climatica, potrebbe anche rivelarsi un'opportunità per mettere in luce gli ultimi effetti de colonialismo europeo: il colonialismo epistemologico e l’idea che soltanto la sapienza europea è capace di proporre le soluzione; che il modo europeo di produrre conoscenza sia l'unico valido, mentre il resto viene relegato a tradizioni e saperi popolari. In una crisi come quella climatica, le conoscenze indigene e "tradizionali" rappresentano una fonte inesauribile di soluzioni.
La mostra "(Dis)integrare prospettive" propone quindi un dibattito sulla necessità di espandere il nostro sguardo al di là della scienza climatica europea. Un dibattito su cos’è la conoscenza e chi sono i soggetti che la producono affinché possiamo pensare un nuovo futuro. Un futuro, come propone il grande Ailton Krenak, ancestrale.
FARPA
Sito: www.agenciafarpa.com
Instagram: @farpa
Fotografi: Erick Dau (@erickdau), Francisco Proner (@franciscoproner) e Thiago Dezan (@thiagodezan).
MESSICO: GRUPPI DI AUTODIFESA - 2021
Il reportage "Messico: gruppi di autodifesa" si concentra sui gruppi di autodifesa messicani, un fenomeno sociale in crescita che rappresenta una forma di resistenza contro la distruzione e la devastazione dei loro territori. Questa resistenza autoctona è una risposta a un modello di sviluppo imposto dallo stato e dai cartelli della droga, che minacciano di annientare i loro stili di vita e saperi ancestrali.
Nei contesti più poveri dell'America Latina, le scomparse, i massacri, il lavoro forzato e i furti causati dall'insicurezza monetaria e dal traffico di droga mettono in grave pericolo le popolazioni, costringendole a lasciare le loro case e abbandonare tutto ciò che possiedono. In risposta all'abbandono dello stato e nel disperato tentativo di rompere il ciclo di violenza, le comunità tradizionali si organizzano in forze di autodifesa antagoniste alle autorità governative e ai cartelli della droga. Fondandosi sulla legge consuetudinaria della costituzione messicana, che garantisce una certa forma di autodeterminazione per i popoli indigeni, i civili adottano metodi che evocano i conflitti latino-americani del secolo scorso per proteggere i loro territori e preservare la loro esistenza. In tal modo, salvaguardano anche i loro ambienti naturali, minacciati dall’insaziabile appetito del capitalismo moderno.
I membri della polizia comunitaria indigena lavorano giorno e notte, pattugliando i dintorni delle fattorie e i sentieri frequentemente utilizzati dai trafficanti. In alcune località, la maggior parte degli uomini partecipa a queste forze di polizia e i bambini vengono educati all'uso delle armi per l'autodifesa.
Il reportage evidenzia come la contesa per il controllo dei territori vulnerabili nei paesi latino-americani non sia solo una lotta per la sicurezza, ma anche una battaglia per la preservazione. La resistenza a questi attacchi non è sempre pacifica e spesso si traduce in autodifesa armata. Attualmente, si stima che ci siano almeno 50 gruppi di autodifesa in Messico, molti dei quali non ancora riconosciuti dal governo federale. Questi gruppi non solo difendono i loro territori dalla devastazione, ma fungono anche da custodi della loro cultura e identità, preservando così un'importante parte del patrimonio collettivo di fronte alla minaccia di distruzione.
FOTOMOVIMIENTO
Sito: www.fotomovimiento.org
Instagram: @fotomovimiento
Fotografi: Manu Gómez , Pedro Mata (@pedroconpulso), Xavi Ariza (@xaviarizafoto)
"Come accoglie l'Europa le persone migranti?" Che trattamento è riservato ai migranti provenienti da paesi la cui storia è indissolubilmente legata al colonialismo europeo. Questi paesi, le cui problematiche socioeconomiche sono dirette eredità di un processo violento spesso ignorato dalla storiografia ufficiale, si vedono ora confrontati con una crisi ulteriormente aggravata dai cambiamenti climatici. Questi cambiamenti, in gran parte causati dai consumi eccessivi e dalla produzione di beni destinati agli ex colonizzatori, hanno effetti devastanti sui territori dei colonizzati, che raramente beneficiano di tali beni.
Le immagini presentate dal collettivo Fotomovimiento offrono uno sguardo profondo sulle vite di chi, in cerca di sopravvivenza, affronta le frontiere fisiche e istituzionali dell'Europa. Dalle coste della Spagna ai campi e alle strade del continente, i migranti appena arrivati, molti dei quali provengono da luoghi come il Senegal, non solo lottano per sopravvivere al viaggio, ma devono anche confrontarsi con un sistema che li marginalizza ed esclude. Questo sistema, arricchitosi e sviluppatosi a spese delle ex colonie, continua a trarre beneficio dal lavoro e dalle risorse di questi territori, mentre i prodotti che ne derivano, come i metalli pesanti delle elettroniche e le merci di lusso, non giungono mai a chi le ha prodotte.
Gli accordi di pesca che hanno depredato le risorse naturali delle loro terre, con pesci ritrovati a Roma o Londra, sono solo un esempio di una lunga catena di ingiustizie che costringe queste persone a cercare rifugio in un continente che spesso li accoglie con indifferenza e oppressione. Le fotografie di Fotomovimiento catturano momenti di estrema vulnerabilità e resilienza, mettendo in luce un processo continuo di marginalizzazione che riflette la persistenza delle logiche coloniali. Le stesse nazioni che un tempo colonizzarono ora ergono muri per chi è stato storicamente oppresso. Le condizioni precarie, la mancanza di supporto istituzionale e le politiche di esclusione sono esposte attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica che cerca di umanizzare queste storie.
Il reportage sottolinea anche la resistenza e l’attivismo, in particolare in città come Barcellona, dove cittadini e attivisti si uniscono per sfidare le ingiustizie e lottare per i diritti umani delle popolazioni migranti. Le immagini testimoniano la lotta per la dignità e l'uguaglianza, documentando manifestazioni, atti e azioni che cercano di dare visibilità a questioni che molti preferiscono ignorare.
"(Dis)integrare prospettive" non è solo una mostra sugli effetti dei cambiamenti climatici; è un’esplorazione dell’impatto umano del collasso ecologico e delle strutture di potere che determinano chi ha il diritto di sopravvivere e prosperare. È un invito a riflettere su come le nostre scelte quotidiane abbiano conseguenze profonde in luoghi lontani e a considerare come i migranti, spesso giudicati con durezza, siano una conseguenza diretta delle scelte che facciamo sugli scaffali del supermercato.
Sito: www.fotomovimiento.org
Instagram: @fotomovimiento
Fotografi: Manu Gómez , Pedro Mata (@pedroconpulso), Xavi Ariza (@xaviarizafoto)
"Come accoglie l'Europa le persone migranti?" Che trattamento è riservato ai migranti provenienti da paesi la cui storia è indissolubilmente legata al colonialismo europeo. Questi paesi, le cui problematiche socioeconomiche sono dirette eredità di un processo violento spesso ignorato dalla storiografia ufficiale, si vedono ora confrontati con una crisi ulteriormente aggravata dai cambiamenti climatici. Questi cambiamenti, in gran parte causati dai consumi eccessivi e dalla produzione di beni destinati agli ex colonizzatori, hanno effetti devastanti sui territori dei colonizzati, che raramente beneficiano di tali beni.
Le immagini presentate dal collettivo Fotomovimiento offrono uno sguardo profondo sulle vite di chi, in cerca di sopravvivenza, affronta le frontiere fisiche e istituzionali dell'Europa. Dalle coste della Spagna ai campi e alle strade del continente, i migranti appena arrivati, molti dei quali provengono da luoghi come il Senegal, non solo lottano per sopravvivere al viaggio, ma devono anche confrontarsi con un sistema che li marginalizza ed esclude. Questo sistema, arricchitosi e sviluppatosi a spese delle ex colonie, continua a trarre beneficio dal lavoro e dalle risorse di questi territori, mentre i prodotti che ne derivano, come i metalli pesanti delle elettroniche e le merci di lusso, non giungono mai a chi le ha prodotte.
Gli accordi di pesca che hanno depredato le risorse naturali delle loro terre, con pesci ritrovati a Roma o Londra, sono solo un esempio di una lunga catena di ingiustizie che costringe queste persone a cercare rifugio in un continente che spesso li accoglie con indifferenza e oppressione. Le fotografie di Fotomovimiento catturano momenti di estrema vulnerabilità e resilienza, mettendo in luce un processo continuo di marginalizzazione che riflette la persistenza delle logiche coloniali. Le stesse nazioni che un tempo colonizzarono ora ergono muri per chi è stato storicamente oppresso. Le condizioni precarie, la mancanza di supporto istituzionale e le politiche di esclusione sono esposte attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica che cerca di umanizzare queste storie.
Il reportage sottolinea anche la resistenza e l’attivismo, in particolare in città come Barcellona, dove cittadini e attivisti si uniscono per sfidare le ingiustizie e lottare per i diritti umani delle popolazioni migranti. Le immagini testimoniano la lotta per la dignità e l'uguaglianza, documentando manifestazioni, atti e azioni che cercano di dare visibilità a questioni che molti preferiscono ignorare.
"(Dis)integrare prospettive" non è solo una mostra sugli effetti dei cambiamenti climatici; è un’esplorazione dell’impatto umano del collasso ecologico e delle strutture di potere che determinano chi ha il diritto di sopravvivere e prosperare. È un invito a riflettere su come le nostre scelte quotidiane abbiano conseguenze profonde in luoghi lontani e a considerare come i migranti, spesso giudicati con durezza, siano una conseguenza diretta delle scelte che facciamo sugli scaffali del supermercato.
OLLO PHOTO
Sito: www.ollo.gal
Instagram: @ollo_foto
Fotografi: Vanessa Casteleiro, Óscar Corral, Brais Lorenzo, Paula Quiroga
1.1
Crisis nombre femenino
Cambio profundo y de consecuencias importantes en un proceso o una situación, o en la manera en que estos son apreciados
1.2
Intensificación brusca de los síntomas de una enfermedad.
Una crisi è un'intensificazione brusca dei sintomi di una malattia, un cambiamento profondo e con conseguenze importanti. I territori già malati diventano luoghi ancora più inospitali a causa della crisi climatica. Gli sforzi per affrontare una natura sopraffatta non sono sufficienti. Spesso ci concentriamo sulle conseguenze, ignorando le cause profonde e proponiamo soluzioni che, piuttosto che affrontare il problema strutturale, lo nascondono sotto una superficie apparentemente risolutiva.
Il effetto della crisi climatica complica ulteriormente la sopravvivenza dei popoli, portando a migrazioni forzate, terre sempre più aride, risorse in diminuzione e persone senza case né rifugi. Comunità che da secoli soffrono a causa dello sfruttamento occidentale sono ora le prime vittime di una distruzione ambientale causata da un'idea di modernità che ignora i limiti del pianeta. Questo concetto di razionalità dimentica che il mondo è molto più grande di quanto la nostra capacità di comprensione possa percepire. Le montagne non sono solo pietre, per molti sono esseri viventi con i quali si interagisce e si comprende il mondo. La natura non è solo una risorsa.
È fondamentale riconoscere che la crisi climatica non colpisce tutti i territori allo stesso modo e che fattori storici e geopolitici giocano un ruolo cruciale in questa disparità. I territori oppressi e sfruttati da secoli di colonizzazione diventano luoghi ancora più inospitali a causa della crisi climatica. Questa situazione non è solo il risultato di eventi naturali, ma di un sistema globale di disuguaglianze che amplifica l'impatto sui territori meno privilegiati. La crisi climatica inizia nella politica e si riflette anche nelle nostre scelte come cittadini e consumatori.
Le conseguenze della crisi aggravano ulteriormente la sopravvivenza dei popoli già oppressi. Senza acqua potabile e cibo, con risorse limitate e problemi di elettricità, le comunità sono costrette a migrare verso luoghi dove l'impatto della crisi è meno severo, nel tentativo di garantire la loro sopravvivenza. Le migrazioni forzate, la scomparsa delle risorse e la mancanza di rifugi sono manifestazioni di un sistema globale iniquo.
Questa situazione riflette le disuguaglianze profonde e le ingiustizie strutturali del nostro mondo. Per affrontare efficacemente la crisi climatica, è essenziale riconoscere come le storie di oppressione e sfruttamento continuino a influenzare le condizioni di vita e cercare risposte che integrino le esperienze e le conoscenze dei popoli più colpiti. Solo comprendendo queste dinamiche storiche e geopolitiche possiamo sperare di trovare soluzioni giuste e sostenibili, che non siano semplicemente una nuova facciata del capitalismo sfrenato, ma che affrontino autenticamente le responsabilità e offrano risposte equitative.
Sito: www.ollo.gal
Instagram: @ollo_foto
Fotografi: Vanessa Casteleiro, Óscar Corral, Brais Lorenzo, Paula Quiroga
1.1
Crisis nombre femenino
Cambio profundo y de consecuencias importantes en un proceso o una situación, o en la manera en que estos son apreciados
1.2
Intensificación brusca de los síntomas de una enfermedad.
Una crisi è un'intensificazione brusca dei sintomi di una malattia, un cambiamento profondo e con conseguenze importanti. I territori già malati diventano luoghi ancora più inospitali a causa della crisi climatica. Gli sforzi per affrontare una natura sopraffatta non sono sufficienti. Spesso ci concentriamo sulle conseguenze, ignorando le cause profonde e proponiamo soluzioni che, piuttosto che affrontare il problema strutturale, lo nascondono sotto una superficie apparentemente risolutiva.
Il effetto della crisi climatica complica ulteriormente la sopravvivenza dei popoli, portando a migrazioni forzate, terre sempre più aride, risorse in diminuzione e persone senza case né rifugi. Comunità che da secoli soffrono a causa dello sfruttamento occidentale sono ora le prime vittime di una distruzione ambientale causata da un'idea di modernità che ignora i limiti del pianeta. Questo concetto di razionalità dimentica che il mondo è molto più grande di quanto la nostra capacità di comprensione possa percepire. Le montagne non sono solo pietre, per molti sono esseri viventi con i quali si interagisce e si comprende il mondo. La natura non è solo una risorsa.
È fondamentale riconoscere che la crisi climatica non colpisce tutti i territori allo stesso modo e che fattori storici e geopolitici giocano un ruolo cruciale in questa disparità. I territori oppressi e sfruttati da secoli di colonizzazione diventano luoghi ancora più inospitali a causa della crisi climatica. Questa situazione non è solo il risultato di eventi naturali, ma di un sistema globale di disuguaglianze che amplifica l'impatto sui territori meno privilegiati. La crisi climatica inizia nella politica e si riflette anche nelle nostre scelte come cittadini e consumatori.
Le conseguenze della crisi aggravano ulteriormente la sopravvivenza dei popoli già oppressi. Senza acqua potabile e cibo, con risorse limitate e problemi di elettricità, le comunità sono costrette a migrare verso luoghi dove l'impatto della crisi è meno severo, nel tentativo di garantire la loro sopravvivenza. Le migrazioni forzate, la scomparsa delle risorse e la mancanza di rifugi sono manifestazioni di un sistema globale iniquo.
Questa situazione riflette le disuguaglianze profonde e le ingiustizie strutturali del nostro mondo. Per affrontare efficacemente la crisi climatica, è essenziale riconoscere come le storie di oppressione e sfruttamento continuino a influenzare le condizioni di vita e cercare risposte che integrino le esperienze e le conoscenze dei popoli più colpiti. Solo comprendendo queste dinamiche storiche e geopolitiche possiamo sperare di trovare soluzioni giuste e sostenibili, che non siano semplicemente una nuova facciata del capitalismo sfrenato, ma che affrontino autenticamente le responsabilità e offrano risposte equitative.
RADICI NEGATE
di Laura Frasca
Il tema affrontato in questo progetto è la scomparsa, sempre più rapida, della foresta del Borneo. Questo importante evento purtroppo sta passando in sordina, chiudendo gli occhi davanti a questo scempio stiamo negando le nostre stesse “radici” che ci danno sostentamento ed ossigeno. Cosa comporta nell’immediato la scomparsa della foresta?
In primis l’estinzione di flora e fauna endemici. I grandi primati, gli oranghi(Pongo) e le nasica(Nasalis larvatus) sono i primi ad esserne colpiti, per non parlare delle conseguenze sull’intero ecosistema.
I Dayak, conosciuti in occidente come i tagliatori di teste, deputati da sempre al compito di proteggere la foresta, si stanno sempre più omologando alla globalizzazione ed arrendendo alla furia cieca delle multinazionali e quindi irrimediabilmente alla perdita della foresta. Diversi i scopi di questo progetto, uno è quello d’aiutare il Tanjung Puting National Park ad essere conosciuto e supportato. Un parco protetto che per volere di Birutè Galdikas, famosa primatologa, protegge gli oranghi dall’estinzione, attraverso la Orangutan Foundation. Inoltre con questo racconto in immagini, si vorrebbe sopratutto sensibilizzare il pubblico sul tema della deforestazione.
di Laura Frasca
Il tema affrontato in questo progetto è la scomparsa, sempre più rapida, della foresta del Borneo. Questo importante evento purtroppo sta passando in sordina, chiudendo gli occhi davanti a questo scempio stiamo negando le nostre stesse “radici” che ci danno sostentamento ed ossigeno. Cosa comporta nell’immediato la scomparsa della foresta?
In primis l’estinzione di flora e fauna endemici. I grandi primati, gli oranghi(Pongo) e le nasica(Nasalis larvatus) sono i primi ad esserne colpiti, per non parlare delle conseguenze sull’intero ecosistema.
I Dayak, conosciuti in occidente come i tagliatori di teste, deputati da sempre al compito di proteggere la foresta, si stanno sempre più omologando alla globalizzazione ed arrendendo alla furia cieca delle multinazionali e quindi irrimediabilmente alla perdita della foresta. Diversi i scopi di questo progetto, uno è quello d’aiutare il Tanjung Puting National Park ad essere conosciuto e supportato. Un parco protetto che per volere di Birutè Galdikas, famosa primatologa, protegge gli oranghi dall’estinzione, attraverso la Orangutan Foundation. Inoltre con questo racconto in immagini, si vorrebbe sopratutto sensibilizzare il pubblico sul tema della deforestazione.
Mauro Orletti
È difficile immaginare l’effetto provocato sulle popolazioni del nuovo mondo dai conquistadores o lo stupore degli spagnoli davanti a quegli uomini stranamente vestiti. I primi avran pensato di avere di fronte delle divinità, divinità con il corpo per metà umano, sebbene duro e lucente, per metà animale (le popolazioni del nuovo mondo non avevano mai visto armature e cavalli). I secondi saran stati certi di aver incontrato degli alieni. Sbarcare in Sudamerica, che allora non era Sudamerica perché l’America non era America e quindi non c’era nemmeno il Sudamerica, era come sbarcare con un’astronave su un pianeta sconosciuto. E cosa avran provato gli spagnoli sopravvissuti alla disgraziata spedizione di Magellano e approdati, nel 1521, in Borneo? Di fronte ai Dayak e alle teste recise dei loro nemici saran rimasti stupiti e terrorizzati.
In un libro di Jean Talon, Incontri coi selvaggi, si racconta dei primi contatti avvenuti fra i rappresentanti del cosiddetto mondo civile e quelli del cosiddetto mondo selvaggio. Attimi memorabili in cui tutto può accadere, in cui la meraviglia (o la delusione) per una scoperta travolgono i protagonisti dell’incontro. Talon racconta anche di contatti più recenti, per esempio di un incontro avvenuto negli anni ’80 fra i membri di una tribù di tagliatori di teste e un gruppo di turisti armati di macchine fotografiche. In questo incontro domina lo stupore: stupiti i turisti nel vedere tagliatori di teste in jeans e maglietta, stupiti i tagliatori di teste nel vedere uomini bianchi così interessati alle loro case, al loro cibo, alle loro maschere. Stupore a parte, i nativi abbandonerebbero seduta stante le loro case, il loro cibo, le loro maschere per far cambio con i turisti. Ovviamente i turisti non accetterebbero il cambio. Pur affascinati dal selvaggio e dal primitivo, si accontentano di mettere a fuoco immagini esotiche, in verità molto rassicuranti. Rassicurante è sapere di esser nati dalla parte giusta del mondo. Eppure il viaggio dovrebbe creare inquietudini, sconvolgere i nostri equilibri.
Oggi si viaggia per ritrovare l’equilibrio. Giorgio Manganelli sarebbe inorridito all’idea. Prima di ogni viaggio sentiva l’urgenza di fare testamento, non tanto a causa di pericoli concreti quanto per il rischio di non fare più ritorno. O meglio, per il rischio di tornare con una nuova identità. Ne L’infinita trama di Allah scrive così: «Ho un amico che, tolte le tendenze maniaco depressive, i tic nervosi facciali, le ansie, gli stati confusionali, le nevrosi persecutorie e una mite paranoia, può considerarsi sostanzialmente normale». E, sempre a proposito di questo amico, dice: «Per molti anni egli non ha viaggiato, al punto che la nozione dell’Italia come immagine peninsulare era per lui del tutto favolosa. […] Ma un giorno il destino lo fece viaggiare. Da quel momento il blando demente si trasformò in un essere irrequieto, frastornato, tremulo e affannato».
Credo che l’amico di Manganelli sia Manganelli stesso, cioè lo scrittore convinto che esistano due tipi ideali di viaggio: «il viaggio con l’autobus numero sessanta, dalla Nomentana a piazza San Silvestro, Roma, o il viaggio in jet a Singapore» (L’isola pianeta e altri settentrioni).
Come dargli torto? Una passeggiata a pochi isolati da casa può tramutarsi in un viaggio memorabile. E questo mi fa venire in mente la storia del Principe di Pandolfina, raccontata da Roberto Alajmo nel suo Repertorio dei matti della città di Palermo. L’uomo fa il voto di andare in Terra Santa nel caso in cui la moglie guarisca da una grave malattia. La guarigione avviene e l’uomo deve tener fede al sacro vincolo. Siamo agli inizio del ‘900 e un viaggio in Terra Santa è assai complicato. Allora, dopo aver calcolato la distanza fra Palermo e Gerusalemme, decide di percorrerla tutta - simbolicamente - camminando lungo i viali attorno al suo palazzo. Riesce nell’impresa accompagnato da un servitore, Felicetto, il quale - raggiunta la meta e temendo il viaggio di ritorno - persuade il Principe a rimanere, diciamo così, in Terra Santa.
Il personaggio di Alajmo non si allontana da casa eppure fa incontri memorabili (con gli altri matti della città di Palermo). Evidentemente ha imparato a separarsi dalle abitudini che ci rendono «blandi dementi».
Affinché il nostro occhio sappia cosa guardare bisogna diventare «irrequieti e frastornati». A quel punto, fotografare un tagliatore di teste del Borneo o un vicino di casa, non farà differenza: il risultato sarà in entrambi i casi stupefacente, sebbene destabilizzante. Potrebbe trattarsi di foreste in fiamme o dell’accoppiamento di oranghi, il discorso è il medesimo.
Le foto di Laura Frasca ci dicono esattamente questo: che i Dayak abitano nel nostro quartiere, che gli oranghi hanno una loro intimità domestica, che il lavoro si fa in abiti comodi, che i ragni tessono trame delicatissime mentre le foreste vanno in fiamme. Senza enfasi e senza retorica, senza sentirsi dalla parte giusta del mondo, senza voler tranquillizzare nessuno.
Un icononauta nel Pacifico occidentale
Brevi annotazioni sullo sguardo del fotografo Di Christian Arnoldi
Susan Sontag, nelle prime pagine del saggio Sulla fotografia, mette in luce uno degli aspetti più problematici di quell’arte, vale a dire la sua propensione al realismo, la sua presunta capacità di cogliere la realtà così come essa si presenta. E a tal proposito scrive: «Quali che siano i limiti (per dilettantismo) o le pretensioni (per ambizioni artistiche) del singolo fotografo, una fotografia – qualunque fotografia – sembra avere con la realtà visibile un rapporto più puro, e quindi più preciso, di altri oggetti mimetici. Anche i virtuosi della nobile immagine [...] vogliono, per prima cosa, mostrare qualcosa “che c’è”»
[1979: 6].
A differenza di altre forme di riproduzione della realtà, come la scrittura, il disegno o la pittura che sono palesemente simulacri frutto di un lavoro di riduzione simbolica e di interpretazione, la fotografia si pone e viene spesso percepita, come rispecchiamento del mondo.
Questo probabilmente in virtù del fatto che essa non viene per lo più associata a un’idea, a un concetto, come accade con gli altri segni (o testi); essa non si separa mai dal suo referente, da ciò che rappresenta. Quando si guardano le fotografie, infatti, si dice: “questa è la foresta del Borneo”, questi sono i Dayak” e “questo è un rito funebre”.
Certo mi riferisco a un modalità di lettura riconducibile a un pubblico generico; come ricorda Roland Barthes, ne La camera chiara, non è impossibile cogliere il «significante fotografico», vale a dire il concetto a cui la foto rimanda, «solo che ciò richiede un atto secondo di sapere e di riflessione» [1980: 7].
In questa breve nota propongo alcune considerazioni per problematizzare il realismo fotografico e per dare qualche chiave di lettura del lavoro di Laura Frasca svolto nel Borneo.
Innanzitutto dovremmo cominciare a pensare che le fotografie corrispondano ad affermazioni, fatte da un fotografo, su circoscritte porzioni del mondo, partendo dal suo punto di vista. Le foto non offrono evidenze che qualcosa esiste o è successo; sono piuttosto il risultato di uno sguardo, cioè di una pratica di significazione derivante dalla selezione e organizzazione di alcuni elementi (quelli che il fotografo imprime sulla pellicola o nella memoria digitale della fotocamera) estrapolati dalla congerie, priva di senso, di aspetti di una parte di mondo.
Lo scatto, potremmo dire, riprendendo la riflessione del sociologo tedesco Georg Simmel sul paesaggio, delimita «nella corrente caotica e nell’infinità del mondo immediatamente dato una parte, concependola e formandola come un’unità, che ora trova il proprio senso in se stessa, tagliando i fili che la collegano al mondo» [Simmel 1913: 58].
Quella “unità”, prodotta dallo sguardo del fotografo, e questo è un secondo spunto di riflessione, è diversa da quella che potrebbe derivare dalla strutturazione del campo visivo fatta, per esempio, da un naturalista che pensa seguendo il principio di causalità o da un agricoltore indigeno che persegue fini pratici.
Lo sguardo del fotografo è culturalmente organizzato; è frutto di premesse implicite, di pre-conoscenze date per scontate, elaborate crescendo in una certa comunità, imparando una certa lingua, seguendo un certo percorso di studi, leggendo libri e riviste, viaggiando; è frutto, inoltre, di una continua interazione con il mezzo tecnico, la macchina fotografica, dell’incorporazione della sua pratica d’uso e delle possibilità di visione che esso offre. Infine, lo sguardo del fotografo, tutt’altro che ingenuo, è carico di aspettative derivanti dalla consultazione dei repertori iconografici del luogo da visitare (guide, carte geografiche, racconti di viaggi, documentari, video, resoconti etnografici, siti internet, pagine Instagram) ai quali si deve, probabilmente, il desiderio stesso di partire del fotografo.
Egli è, riprendendo l’espressione del critico cinematografico Gian Piero Brunetta che abbiamo usato nel titolo, un icononauta; ovvero un fruitore di immagini che oggi, a seguito della rivoluzione digitale, si sono moltiplicate. E quelle immagini, cioè la rappresentazione del luogo che anticipano il viaggio, non svolgono soltanto una funzione, in qualche modo, motivazionale (il cosiddetto pull factor); esse assolvono una funzione di orientamento e di guida, come fossero schemi cognitivi e interpretativi, dell’esperienza del fotografo una volta giunto sul posto [Aime, Papotti 2012: 6].
Ecco allora che le immagini proposte in questo volume, non ci parlano del Borneo, non ci dicono “questa è la foresta pluviale”, “questi sono gli oranghi”, “questi sono i Dayak”; raccontano piuttosto della costruzione e della pratica dello sguardo della fotografa Laura Frasca: potremmo dire della reazione di alcune parti di quel mondo al suo sguardo.
A questo si aggiunga un ulteriore aspetto, vale a dire che lo sguardo del fotografo risente anche dell’organizzazione sociale della visibilità del luogo di approdo, ovvero delle tattiche usate dalle comunità locali per mostrarsi e raccontarsi all’altro, all’ospite, sia esso turista, fotografo o antropologo.
Organizzazione della visibilità che è basata su una serie di componenti: i tour, predisposti per visitare le attrazioni, conoscere l’isola e i suoi abitanti; le guide locali che mostrano ciò che ritengono possa interessare ai visitatori e che offrono narrazioni del luogo volte a soddisfare le aspettative degli ospiti; i musei che raccontano le tradizioni, gli usi, i costumi e la vita di un tempo; una serie di infrastrutture: strade carrozzabili, sentieri, belvedere, punti panoramici, ponti, torrette di avvistamento, resort, camping, villaggi; e ancora i mezzi di trasporto: barche, jeep, autobus, automobili, ecc.
Le comunità ospitanti, o coloro che gestiscono sul posto l’ospitalità, solitamente configurano il territorio in modo da rendere visibili quegli elementi e quegli aspetti che i visitatori si attendono di vedere; quegli elementi che l’esperienza stessa dell’incontro, la sua narrazione e documentazione iconografica, hanno prodotto come attrazioni degne di uno sguardo.
È un vorticoso gioco di specchi quello nel quale il fotografo si trova implicato: l’organizzazione sociale della visibilità non riguarda soltanto la configurazione del territorio ma anche gli abitanti, almeno quelli che interagiscono con i turisti, i quali si mettono in scena così come sono stati dipinti, anzi, verrebbe da dire, così come sono stati fotografati.
E, per reagire (e al tempo stesso dar forma) alle esigenze dei differenti sguardi dei visitatori (turisti, fotografi, antropologi), come spiega molto bene Dean MacCannell nel suo The Tourist, si mettono in scena, appunto, all’interno di spazi organizzati che sono: le front regions (o ribalte, per riprendere la terminologia del sociologo Erving Goffman) cioè quegli spazi che gli ospiti tentano di oltrepassare alla ricerca di un esperienza non turistica (più “autentica”); le front regions turistiche, allestite per sembrare in alcune parti dei retroscena; le front regions totalmente organizzate per sembrare a tutti gli effetti dei retroscena, cioè il territorio e la quotidianità così come sono vissuti degli indigeni; le back regions aperte agli estranei, le back regions ripulite, ecc. [1976: 107-108].
Per concludere, sempre, gli ospiti si trovano, come scriveva Mark Twain in Innocents Abroad, a cercare conferma di ciò che hanno letto e visto prima di partire e, aggiungo io, a reagire all’imponente organizzazione del setting turistico. Forse ciò che differenzia il fotografo dai turisti sta nella consapevolezza del proprio sguardo, cioè nell’acquisizione di un meta- sguardo (uno sguardo sullo sguardo): nel tener conto, tra le altre cose, anche degli aspetti che ho brevemente enunciato in questa nota.
Mi pare che Laura Frasca, nel lavoro fotografico che presenta, anziché raccontarci il Borneo, ci parli del suo sguardo e ci dia conto della sua interazione, mediata dalla macchina fotografica, con alcuni aspetti di quell’isola e con le strutture che le hanno permesso di vedere ciò che ha visto e di fotografarlo.
Trento, 3 maggio 2018
Riferimenti bibliografici
Aime M., Papotti D., L’altro e l’altrove, Einaudi, Torino,2012;
Barthes R. (1980), La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980;
MacCannell D. (1976), Il Turista, Utet, Torino, 2005
Simmal, G (1913), Saggi sul Paesaggio, Armando, Roma, 2006;
Sontag S. (1973), Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1978;
Urry J. (1989), Lo sguardo del turista, Seam, Formello (RM), 2000;
Laura Frasca
Fotografa, art manager e insegnante.
Apre nel 2021 insieme a Francesco Savelli Green Whale Space, uno spazio dedicato a corsi, mostre, presentazioni e tutto ciò che riguarda la fotografia e la natura. Ha avviato e diretto per diversi anni Paoletti School of Photography e la Galleria Paoletti. Ha insegnato fotografia in diversi licei ed istituti di Bologna. Espone in Italia ed Europa, al Parlamento Europeo a Bruxelles, alla Biennale di Arte e Fotografia Documentaristica a Berlino (Margaret Cameron Award), nella Casina delle Civette presso Villa Torlonia a Roma, al TEDxBologna, nella Cineteca di Bologna, nel Cortile d'onore di Palazzo d’Accursio, nella Casa delle Donne, presso la Aoyama Gakuin University Gender Research Center Gallery di Tokyo . Pubblicato il libro Neglected Roots sulla scomparsa della foresta del Borneo Indonesiano realizza altre mostre a Bologna, in Piazza Aldrovandi e Giardino Parker Lennon per il festival Human Rights Nights con il quale collabora, a San Ginesio nel Loggiato di San Tommaso e Barnaba, nel Palazzo della Provincia di Trento (Radici Negate - Il Senso delle Foreste Borneo e Canada). Realizza e cura a Minerbio il Festival di Fotografia Fotonika.
www.laurafrasca.com - www.greenwhalespace.com
È difficile immaginare l’effetto provocato sulle popolazioni del nuovo mondo dai conquistadores o lo stupore degli spagnoli davanti a quegli uomini stranamente vestiti. I primi avran pensato di avere di fronte delle divinità, divinità con il corpo per metà umano, sebbene duro e lucente, per metà animale (le popolazioni del nuovo mondo non avevano mai visto armature e cavalli). I secondi saran stati certi di aver incontrato degli alieni. Sbarcare in Sudamerica, che allora non era Sudamerica perché l’America non era America e quindi non c’era nemmeno il Sudamerica, era come sbarcare con un’astronave su un pianeta sconosciuto. E cosa avran provato gli spagnoli sopravvissuti alla disgraziata spedizione di Magellano e approdati, nel 1521, in Borneo? Di fronte ai Dayak e alle teste recise dei loro nemici saran rimasti stupiti e terrorizzati.
In un libro di Jean Talon, Incontri coi selvaggi, si racconta dei primi contatti avvenuti fra i rappresentanti del cosiddetto mondo civile e quelli del cosiddetto mondo selvaggio. Attimi memorabili in cui tutto può accadere, in cui la meraviglia (o la delusione) per una scoperta travolgono i protagonisti dell’incontro. Talon racconta anche di contatti più recenti, per esempio di un incontro avvenuto negli anni ’80 fra i membri di una tribù di tagliatori di teste e un gruppo di turisti armati di macchine fotografiche. In questo incontro domina lo stupore: stupiti i turisti nel vedere tagliatori di teste in jeans e maglietta, stupiti i tagliatori di teste nel vedere uomini bianchi così interessati alle loro case, al loro cibo, alle loro maschere. Stupore a parte, i nativi abbandonerebbero seduta stante le loro case, il loro cibo, le loro maschere per far cambio con i turisti. Ovviamente i turisti non accetterebbero il cambio. Pur affascinati dal selvaggio e dal primitivo, si accontentano di mettere a fuoco immagini esotiche, in verità molto rassicuranti. Rassicurante è sapere di esser nati dalla parte giusta del mondo. Eppure il viaggio dovrebbe creare inquietudini, sconvolgere i nostri equilibri.
Oggi si viaggia per ritrovare l’equilibrio. Giorgio Manganelli sarebbe inorridito all’idea. Prima di ogni viaggio sentiva l’urgenza di fare testamento, non tanto a causa di pericoli concreti quanto per il rischio di non fare più ritorno. O meglio, per il rischio di tornare con una nuova identità. Ne L’infinita trama di Allah scrive così: «Ho un amico che, tolte le tendenze maniaco depressive, i tic nervosi facciali, le ansie, gli stati confusionali, le nevrosi persecutorie e una mite paranoia, può considerarsi sostanzialmente normale». E, sempre a proposito di questo amico, dice: «Per molti anni egli non ha viaggiato, al punto che la nozione dell’Italia come immagine peninsulare era per lui del tutto favolosa. […] Ma un giorno il destino lo fece viaggiare. Da quel momento il blando demente si trasformò in un essere irrequieto, frastornato, tremulo e affannato».
Credo che l’amico di Manganelli sia Manganelli stesso, cioè lo scrittore convinto che esistano due tipi ideali di viaggio: «il viaggio con l’autobus numero sessanta, dalla Nomentana a piazza San Silvestro, Roma, o il viaggio in jet a Singapore» (L’isola pianeta e altri settentrioni).
Come dargli torto? Una passeggiata a pochi isolati da casa può tramutarsi in un viaggio memorabile. E questo mi fa venire in mente la storia del Principe di Pandolfina, raccontata da Roberto Alajmo nel suo Repertorio dei matti della città di Palermo. L’uomo fa il voto di andare in Terra Santa nel caso in cui la moglie guarisca da una grave malattia. La guarigione avviene e l’uomo deve tener fede al sacro vincolo. Siamo agli inizio del ‘900 e un viaggio in Terra Santa è assai complicato. Allora, dopo aver calcolato la distanza fra Palermo e Gerusalemme, decide di percorrerla tutta - simbolicamente - camminando lungo i viali attorno al suo palazzo. Riesce nell’impresa accompagnato da un servitore, Felicetto, il quale - raggiunta la meta e temendo il viaggio di ritorno - persuade il Principe a rimanere, diciamo così, in Terra Santa.
Il personaggio di Alajmo non si allontana da casa eppure fa incontri memorabili (con gli altri matti della città di Palermo). Evidentemente ha imparato a separarsi dalle abitudini che ci rendono «blandi dementi».
Affinché il nostro occhio sappia cosa guardare bisogna diventare «irrequieti e frastornati». A quel punto, fotografare un tagliatore di teste del Borneo o un vicino di casa, non farà differenza: il risultato sarà in entrambi i casi stupefacente, sebbene destabilizzante. Potrebbe trattarsi di foreste in fiamme o dell’accoppiamento di oranghi, il discorso è il medesimo.
Le foto di Laura Frasca ci dicono esattamente questo: che i Dayak abitano nel nostro quartiere, che gli oranghi hanno una loro intimità domestica, che il lavoro si fa in abiti comodi, che i ragni tessono trame delicatissime mentre le foreste vanno in fiamme. Senza enfasi e senza retorica, senza sentirsi dalla parte giusta del mondo, senza voler tranquillizzare nessuno.
Un icononauta nel Pacifico occidentale
Brevi annotazioni sullo sguardo del fotografo Di Christian Arnoldi
Susan Sontag, nelle prime pagine del saggio Sulla fotografia, mette in luce uno degli aspetti più problematici di quell’arte, vale a dire la sua propensione al realismo, la sua presunta capacità di cogliere la realtà così come essa si presenta. E a tal proposito scrive: «Quali che siano i limiti (per dilettantismo) o le pretensioni (per ambizioni artistiche) del singolo fotografo, una fotografia – qualunque fotografia – sembra avere con la realtà visibile un rapporto più puro, e quindi più preciso, di altri oggetti mimetici. Anche i virtuosi della nobile immagine [...] vogliono, per prima cosa, mostrare qualcosa “che c’è”»
[1979: 6].
A differenza di altre forme di riproduzione della realtà, come la scrittura, il disegno o la pittura che sono palesemente simulacri frutto di un lavoro di riduzione simbolica e di interpretazione, la fotografia si pone e viene spesso percepita, come rispecchiamento del mondo.
Questo probabilmente in virtù del fatto che essa non viene per lo più associata a un’idea, a un concetto, come accade con gli altri segni (o testi); essa non si separa mai dal suo referente, da ciò che rappresenta. Quando si guardano le fotografie, infatti, si dice: “questa è la foresta del Borneo”, questi sono i Dayak” e “questo è un rito funebre”.
Certo mi riferisco a un modalità di lettura riconducibile a un pubblico generico; come ricorda Roland Barthes, ne La camera chiara, non è impossibile cogliere il «significante fotografico», vale a dire il concetto a cui la foto rimanda, «solo che ciò richiede un atto secondo di sapere e di riflessione» [1980: 7].
In questa breve nota propongo alcune considerazioni per problematizzare il realismo fotografico e per dare qualche chiave di lettura del lavoro di Laura Frasca svolto nel Borneo.
Innanzitutto dovremmo cominciare a pensare che le fotografie corrispondano ad affermazioni, fatte da un fotografo, su circoscritte porzioni del mondo, partendo dal suo punto di vista. Le foto non offrono evidenze che qualcosa esiste o è successo; sono piuttosto il risultato di uno sguardo, cioè di una pratica di significazione derivante dalla selezione e organizzazione di alcuni elementi (quelli che il fotografo imprime sulla pellicola o nella memoria digitale della fotocamera) estrapolati dalla congerie, priva di senso, di aspetti di una parte di mondo.
Lo scatto, potremmo dire, riprendendo la riflessione del sociologo tedesco Georg Simmel sul paesaggio, delimita «nella corrente caotica e nell’infinità del mondo immediatamente dato una parte, concependola e formandola come un’unità, che ora trova il proprio senso in se stessa, tagliando i fili che la collegano al mondo» [Simmel 1913: 58].
Quella “unità”, prodotta dallo sguardo del fotografo, e questo è un secondo spunto di riflessione, è diversa da quella che potrebbe derivare dalla strutturazione del campo visivo fatta, per esempio, da un naturalista che pensa seguendo il principio di causalità o da un agricoltore indigeno che persegue fini pratici.
Lo sguardo del fotografo è culturalmente organizzato; è frutto di premesse implicite, di pre-conoscenze date per scontate, elaborate crescendo in una certa comunità, imparando una certa lingua, seguendo un certo percorso di studi, leggendo libri e riviste, viaggiando; è frutto, inoltre, di una continua interazione con il mezzo tecnico, la macchina fotografica, dell’incorporazione della sua pratica d’uso e delle possibilità di visione che esso offre. Infine, lo sguardo del fotografo, tutt’altro che ingenuo, è carico di aspettative derivanti dalla consultazione dei repertori iconografici del luogo da visitare (guide, carte geografiche, racconti di viaggi, documentari, video, resoconti etnografici, siti internet, pagine Instagram) ai quali si deve, probabilmente, il desiderio stesso di partire del fotografo.
Egli è, riprendendo l’espressione del critico cinematografico Gian Piero Brunetta che abbiamo usato nel titolo, un icononauta; ovvero un fruitore di immagini che oggi, a seguito della rivoluzione digitale, si sono moltiplicate. E quelle immagini, cioè la rappresentazione del luogo che anticipano il viaggio, non svolgono soltanto una funzione, in qualche modo, motivazionale (il cosiddetto pull factor); esse assolvono una funzione di orientamento e di guida, come fossero schemi cognitivi e interpretativi, dell’esperienza del fotografo una volta giunto sul posto [Aime, Papotti 2012: 6].
Ecco allora che le immagini proposte in questo volume, non ci parlano del Borneo, non ci dicono “questa è la foresta pluviale”, “questi sono gli oranghi”, “questi sono i Dayak”; raccontano piuttosto della costruzione e della pratica dello sguardo della fotografa Laura Frasca: potremmo dire della reazione di alcune parti di quel mondo al suo sguardo.
A questo si aggiunga un ulteriore aspetto, vale a dire che lo sguardo del fotografo risente anche dell’organizzazione sociale della visibilità del luogo di approdo, ovvero delle tattiche usate dalle comunità locali per mostrarsi e raccontarsi all’altro, all’ospite, sia esso turista, fotografo o antropologo.
Organizzazione della visibilità che è basata su una serie di componenti: i tour, predisposti per visitare le attrazioni, conoscere l’isola e i suoi abitanti; le guide locali che mostrano ciò che ritengono possa interessare ai visitatori e che offrono narrazioni del luogo volte a soddisfare le aspettative degli ospiti; i musei che raccontano le tradizioni, gli usi, i costumi e la vita di un tempo; una serie di infrastrutture: strade carrozzabili, sentieri, belvedere, punti panoramici, ponti, torrette di avvistamento, resort, camping, villaggi; e ancora i mezzi di trasporto: barche, jeep, autobus, automobili, ecc.
Le comunità ospitanti, o coloro che gestiscono sul posto l’ospitalità, solitamente configurano il territorio in modo da rendere visibili quegli elementi e quegli aspetti che i visitatori si attendono di vedere; quegli elementi che l’esperienza stessa dell’incontro, la sua narrazione e documentazione iconografica, hanno prodotto come attrazioni degne di uno sguardo.
È un vorticoso gioco di specchi quello nel quale il fotografo si trova implicato: l’organizzazione sociale della visibilità non riguarda soltanto la configurazione del territorio ma anche gli abitanti, almeno quelli che interagiscono con i turisti, i quali si mettono in scena così come sono stati dipinti, anzi, verrebbe da dire, così come sono stati fotografati.
E, per reagire (e al tempo stesso dar forma) alle esigenze dei differenti sguardi dei visitatori (turisti, fotografi, antropologi), come spiega molto bene Dean MacCannell nel suo The Tourist, si mettono in scena, appunto, all’interno di spazi organizzati che sono: le front regions (o ribalte, per riprendere la terminologia del sociologo Erving Goffman) cioè quegli spazi che gli ospiti tentano di oltrepassare alla ricerca di un esperienza non turistica (più “autentica”); le front regions turistiche, allestite per sembrare in alcune parti dei retroscena; le front regions totalmente organizzate per sembrare a tutti gli effetti dei retroscena, cioè il territorio e la quotidianità così come sono vissuti degli indigeni; le back regions aperte agli estranei, le back regions ripulite, ecc. [1976: 107-108].
Per concludere, sempre, gli ospiti si trovano, come scriveva Mark Twain in Innocents Abroad, a cercare conferma di ciò che hanno letto e visto prima di partire e, aggiungo io, a reagire all’imponente organizzazione del setting turistico. Forse ciò che differenzia il fotografo dai turisti sta nella consapevolezza del proprio sguardo, cioè nell’acquisizione di un meta- sguardo (uno sguardo sullo sguardo): nel tener conto, tra le altre cose, anche degli aspetti che ho brevemente enunciato in questa nota.
Mi pare che Laura Frasca, nel lavoro fotografico che presenta, anziché raccontarci il Borneo, ci parli del suo sguardo e ci dia conto della sua interazione, mediata dalla macchina fotografica, con alcuni aspetti di quell’isola e con le strutture che le hanno permesso di vedere ciò che ha visto e di fotografarlo.
Trento, 3 maggio 2018
Riferimenti bibliografici
Aime M., Papotti D., L’altro e l’altrove, Einaudi, Torino,2012;
Barthes R. (1980), La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980;
MacCannell D. (1976), Il Turista, Utet, Torino, 2005
Simmal, G (1913), Saggi sul Paesaggio, Armando, Roma, 2006;
Sontag S. (1973), Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1978;
Urry J. (1989), Lo sguardo del turista, Seam, Formello (RM), 2000;
Laura Frasca
Fotografa, art manager e insegnante.
Apre nel 2021 insieme a Francesco Savelli Green Whale Space, uno spazio dedicato a corsi, mostre, presentazioni e tutto ciò che riguarda la fotografia e la natura. Ha avviato e diretto per diversi anni Paoletti School of Photography e la Galleria Paoletti. Ha insegnato fotografia in diversi licei ed istituti di Bologna. Espone in Italia ed Europa, al Parlamento Europeo a Bruxelles, alla Biennale di Arte e Fotografia Documentaristica a Berlino (Margaret Cameron Award), nella Casina delle Civette presso Villa Torlonia a Roma, al TEDxBologna, nella Cineteca di Bologna, nel Cortile d'onore di Palazzo d’Accursio, nella Casa delle Donne, presso la Aoyama Gakuin University Gender Research Center Gallery di Tokyo . Pubblicato il libro Neglected Roots sulla scomparsa della foresta del Borneo Indonesiano realizza altre mostre a Bologna, in Piazza Aldrovandi e Giardino Parker Lennon per il festival Human Rights Nights con il quale collabora, a San Ginesio nel Loggiato di San Tommaso e Barnaba, nel Palazzo della Provincia di Trento (Radici Negate - Il Senso delle Foreste Borneo e Canada). Realizza e cura a Minerbio il Festival di Fotografia Fotonika.
www.laurafrasca.com - www.greenwhalespace.com