In occasione dell'evento Orgotronica di venerdì 1 novembre dalle ore 20 vi presentiamo la mostra SPIRITI LIBERI con i progetti SPIRIT OF ETHIOPIA di Laura Frasca e AFGHANISTAN 1968 di Adalberto Cencetti.
Questa mostra intreccia due viaggi in terre lontane, l’Etiopia e l’Afghanistan, accomunate dalla spiritualità e da un senso di autenticità perduta. L’Etiopia, con le celebrazioni del Timkat e la sacralità di Lalibela, mostra un popolo radicato nei propri rituali, immerso in una fede senza tempo. L’Afghanistan degli anni ‘60 e ‘70, invece, diventa meta di giovani occidentali alla ricerca di un rifugio dal materialismo e di un universo più semplice.
Questi due percorsi fotografici invitano a una riflessione su luoghi dove il tempo sembra essersi fermato, dove il viaggio non è solo esplorazione fisica ma anche spirituale, un ritorno ai valori essenziali dell’esistenza.
Questi due percorsi fotografici invitano a una riflessione su luoghi dove il tempo sembra essersi fermato, dove il viaggio non è solo esplorazione fisica ma anche spirituale, un ritorno ai valori essenziali dell’esistenza.
AFGHANISTAN 1968
Afghanistan paese felice prima delle invasioni russe e americane
Nel 1963-64 inizia una vera e propria immigrazione “mistica” verso l’asia e l’india di giovani “Hippies” che si muovono in gruppi anche numerosi e viaggiano con i mezzi più vari, dall’autostop ai precari mezzi di linea dei paesi che lo attraversano senza fretta: il viaggio in sé ha lo stesso fascino della meta finale. Il viaggio ha più valore della meta, come la droga, che non è un fine ludico, ma un mezzo, uno strumento per raggiungere uno stato superiore di coscienza.
L’universo che queste droghe spalancano, o solo promettono, è la molla di questo grande fiume umano che invade l’oriente in cerca di un universo dimenticato e oscurato dal processo di civilizzazione. Questo viaggio nell’Eden è l’ultima difesa dalla burocrazia, dalla competizione, dalla violenza e dall’abulia, dall’alienazione e dal materialismo che contraddistingue il mondo occidentale. La purezza dell’uomo naturale si contrappone alla chiusura e meccanicità dell’uomo tecnologico, la povertà dei popoli ancora immersi in un universo agricolo legato al lavoro e ai prodotti della terra si oppone alla ricchezza dell’universo capitalista che riconosce solo le esigenze del profitto. Da qualsiasi luogo provengano, America, Europa, Africa, tutti si ritrovano a Istanbul e senza fretta si dirigono ad oriente secondo tappe obbligate. La prima fermata è Ankara dove si passa esclusivamente per far validare o ottenere i visti necessari per proseguire. Si procede verso Trabzon e si arriva alla frontiera. La prima meta in Iran è Tabriz da dove si procede verso Tehran e da qui si giunge a Mashhad. La prima città afgana appena dopo il confine è Herat.
Dopo la desolazione dell’Iran, e l’aggressiva invadenza dei suoi abitanti, la civile noncuranza con cui gli afgani vi guardano è tanto più gradita. I loro gesti lenti eppure sciolti appartengono a una dimensione del tempo immutabile, costante comune a tutte le civiltà arcaiche, preindustriali, prerinascimentali. Attraversando il deserto percorrendo una strada asfaltata con il sistema sovietico a lastroni con giunto di dilatazione si arriva a Kabul e si intuisce di aver raggiunto un traguardo.
Adalberto Cencetti
Afghanistan paese felice prima delle invasioni russe e americane
Nel 1963-64 inizia una vera e propria immigrazione “mistica” verso l’asia e l’india di giovani “Hippies” che si muovono in gruppi anche numerosi e viaggiano con i mezzi più vari, dall’autostop ai precari mezzi di linea dei paesi che lo attraversano senza fretta: il viaggio in sé ha lo stesso fascino della meta finale. Il viaggio ha più valore della meta, come la droga, che non è un fine ludico, ma un mezzo, uno strumento per raggiungere uno stato superiore di coscienza.
L’universo che queste droghe spalancano, o solo promettono, è la molla di questo grande fiume umano che invade l’oriente in cerca di un universo dimenticato e oscurato dal processo di civilizzazione. Questo viaggio nell’Eden è l’ultima difesa dalla burocrazia, dalla competizione, dalla violenza e dall’abulia, dall’alienazione e dal materialismo che contraddistingue il mondo occidentale. La purezza dell’uomo naturale si contrappone alla chiusura e meccanicità dell’uomo tecnologico, la povertà dei popoli ancora immersi in un universo agricolo legato al lavoro e ai prodotti della terra si oppone alla ricchezza dell’universo capitalista che riconosce solo le esigenze del profitto. Da qualsiasi luogo provengano, America, Europa, Africa, tutti si ritrovano a Istanbul e senza fretta si dirigono ad oriente secondo tappe obbligate. La prima fermata è Ankara dove si passa esclusivamente per far validare o ottenere i visti necessari per proseguire. Si procede verso Trabzon e si arriva alla frontiera. La prima meta in Iran è Tabriz da dove si procede verso Tehran e da qui si giunge a Mashhad. La prima città afgana appena dopo il confine è Herat.
Dopo la desolazione dell’Iran, e l’aggressiva invadenza dei suoi abitanti, la civile noncuranza con cui gli afgani vi guardano è tanto più gradita. I loro gesti lenti eppure sciolti appartengono a una dimensione del tempo immutabile, costante comune a tutte le civiltà arcaiche, preindustriali, prerinascimentali. Attraversando il deserto percorrendo una strada asfaltata con il sistema sovietico a lastroni con giunto di dilatazione si arriva a Kabul e si intuisce di aver raggiunto un traguardo.
Adalberto Cencetti
SPIRIT OF ETHIOPIA
Ritorno al Sole: la Spiritualità di un’Etiopia Riscoperta
Attraverso l’obiettivo, ho intrapreso un viaggio sulle orme di mio nonno Umberto, un uomo che, dopo aver servito nella Croce Rossa Italiana durante la Campagna d’Africa, ha portato con sé non solo immagini, ma suggestioni e ricordi che hanno continuato a nutrire l’immaginario della nostra famiglia. Da bambina, i suoi racconti sull’Etiopia – un luogo che, come mi diceva, viveva al ritmo del sole e dove la gente possedeva un’eleganza naturale – mi hanno ispirato a conoscere questa terra, a esplorare ciò che lui chiamava “mal d’Africa,” quella nostalgia viscerale che non l’ha mai abbandonato.
Con la mia macchina fotografica, ho cercato di restituire la spiritualità che permea il Tigray e il nord dell’Etiopia, territori di grande valore storico e culturale. Un simbolo centrale di questa spiritualità è il Timkat, l’Epifania etiope, una celebrazione in cui i fedeli rinnovano il loro battesimo tra canti, danze e gesti rituali che rimandano a una fede antica. Ho interpretato questi momenti con una sensibilità che richiama la monumentalità e il senso di sacralità presenti nei dipinti rinascimentali italiani, dove le figure umane si dispongono in composizioni armoniche: volti rivolti al cielo, colori saturi, e un movimento che sembra trasportare ogni partecipante verso l’alto, in uno slancio collettivo verso la trascendenza.
Un luogo che emerge in modo particolare in questo progetto è Lalibela, una città unica dove il tempo sembra essersi fermato. Ispirata al racconto biblico di Gerusalemme, Lalibela è un labirinto di chiese scavate nella roccia, un’opera di arte sacra che attira pellegrini da ogni angolo del paese. Ho scelto di fotografare Lalibela all’alba, ispirandomi all’atmosfera silente e mistica delle vedute del Romanticismo europeo, dove la natura e le strutture diventano presenze ancestrali immerse in un dialogo con il divino. In questi paesaggi, il silenzio e il mistero avvolgono ogni pietra, che sembra essere testimone di una fede che supera i confini del tempo.
A livello stilistico, il progetto combina elementi di ritratto e di paesaggio. Nei ritratti degli abitanti, ho voluto esplorare la dignità e la fierezza del popolo etiope, cercando di cogliere l’essenza di un’identità culturale antica. Ogni volto è una storia, ogni espressione un legame con quella spiritualità che caratterizza la regione, come nei ritratti rinascimentali che valorizzano la forza interiore e la nobiltà dell’individuo.
In altri scatti, ho usato tecniche di landscape photography per dare spazio al deserto e ai vasti paesaggi montuosi, territori imponenti e silenziosi che sembrano osservare la vita umana dall’alto. Questi spazi, soprattutto nel deserto del Dallol, mi hanno riportato alla narrazione di mio nonno sugli Afar, un popolo temibile e fiero, che conserva la propria identità in un contesto duro e inospitale. Qui, i paesaggi assumono un’essenzialità quasi astratta, dove ombra, vuoto e luce amplificano il senso di solitudine e vastità, trasformando la scena in un’esperienza visiva e psicologica.
In questo viaggio fotografico, ho sperimentato diversi approcci tecnici, adattando ogni scatto all’atmosfera del momento e del luogo. Alcuni ritratti in bianco e nero esaltano il contrasto e la drammaticità della scena, richiamando le incisioni rinascimentali per la loro intensità; mentre, per le scene di festa e di mercato, ho scelto la fotografia a colori per rendere i toni caldi della terra e dei tessuti, evocando la vibrante tavolozza dei Fauves. Il colore qui non è solo elemento estetico, ma diventa essenza stessa dell’ambiente e della cultura etiope, portando in primo piano l’energia di un popolo e il calore di una spiritualità profonda.
Questa mostra intende trasmettere non solo l’esperienza di un viaggio, ma anche un incontro con la spiritualità e la bellezza eterne di un popolo e di una terra ancestrale. Guardare queste fotografie significa avvicinarsi a una dimensione in cui il tempo si sospende e si respira il fascino di una cultura che, pur essendo stata raccontata dai libri e dai viaggiatori, conserva intatto il suo mistero.
Laura Frasca
Ritorno al Sole: la Spiritualità di un’Etiopia Riscoperta
Attraverso l’obiettivo, ho intrapreso un viaggio sulle orme di mio nonno Umberto, un uomo che, dopo aver servito nella Croce Rossa Italiana durante la Campagna d’Africa, ha portato con sé non solo immagini, ma suggestioni e ricordi che hanno continuato a nutrire l’immaginario della nostra famiglia. Da bambina, i suoi racconti sull’Etiopia – un luogo che, come mi diceva, viveva al ritmo del sole e dove la gente possedeva un’eleganza naturale – mi hanno ispirato a conoscere questa terra, a esplorare ciò che lui chiamava “mal d’Africa,” quella nostalgia viscerale che non l’ha mai abbandonato.
Con la mia macchina fotografica, ho cercato di restituire la spiritualità che permea il Tigray e il nord dell’Etiopia, territori di grande valore storico e culturale. Un simbolo centrale di questa spiritualità è il Timkat, l’Epifania etiope, una celebrazione in cui i fedeli rinnovano il loro battesimo tra canti, danze e gesti rituali che rimandano a una fede antica. Ho interpretato questi momenti con una sensibilità che richiama la monumentalità e il senso di sacralità presenti nei dipinti rinascimentali italiani, dove le figure umane si dispongono in composizioni armoniche: volti rivolti al cielo, colori saturi, e un movimento che sembra trasportare ogni partecipante verso l’alto, in uno slancio collettivo verso la trascendenza.
Un luogo che emerge in modo particolare in questo progetto è Lalibela, una città unica dove il tempo sembra essersi fermato. Ispirata al racconto biblico di Gerusalemme, Lalibela è un labirinto di chiese scavate nella roccia, un’opera di arte sacra che attira pellegrini da ogni angolo del paese. Ho scelto di fotografare Lalibela all’alba, ispirandomi all’atmosfera silente e mistica delle vedute del Romanticismo europeo, dove la natura e le strutture diventano presenze ancestrali immerse in un dialogo con il divino. In questi paesaggi, il silenzio e il mistero avvolgono ogni pietra, che sembra essere testimone di una fede che supera i confini del tempo.
A livello stilistico, il progetto combina elementi di ritratto e di paesaggio. Nei ritratti degli abitanti, ho voluto esplorare la dignità e la fierezza del popolo etiope, cercando di cogliere l’essenza di un’identità culturale antica. Ogni volto è una storia, ogni espressione un legame con quella spiritualità che caratterizza la regione, come nei ritratti rinascimentali che valorizzano la forza interiore e la nobiltà dell’individuo.
In altri scatti, ho usato tecniche di landscape photography per dare spazio al deserto e ai vasti paesaggi montuosi, territori imponenti e silenziosi che sembrano osservare la vita umana dall’alto. Questi spazi, soprattutto nel deserto del Dallol, mi hanno riportato alla narrazione di mio nonno sugli Afar, un popolo temibile e fiero, che conserva la propria identità in un contesto duro e inospitale. Qui, i paesaggi assumono un’essenzialità quasi astratta, dove ombra, vuoto e luce amplificano il senso di solitudine e vastità, trasformando la scena in un’esperienza visiva e psicologica.
In questo viaggio fotografico, ho sperimentato diversi approcci tecnici, adattando ogni scatto all’atmosfera del momento e del luogo. Alcuni ritratti in bianco e nero esaltano il contrasto e la drammaticità della scena, richiamando le incisioni rinascimentali per la loro intensità; mentre, per le scene di festa e di mercato, ho scelto la fotografia a colori per rendere i toni caldi della terra e dei tessuti, evocando la vibrante tavolozza dei Fauves. Il colore qui non è solo elemento estetico, ma diventa essenza stessa dell’ambiente e della cultura etiope, portando in primo piano l’energia di un popolo e il calore di una spiritualità profonda.
Questa mostra intende trasmettere non solo l’esperienza di un viaggio, ma anche un incontro con la spiritualità e la bellezza eterne di un popolo e di una terra ancestrale. Guardare queste fotografie significa avvicinarsi a una dimensione in cui il tempo si sospende e si respira il fascino di una cultura che, pur essendo stata raccontata dai libri e dai viaggiatori, conserva intatto il suo mistero.
Laura Frasca